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Giuseppe Cesare Abba - Cronache A Memoria
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Giuseppe Cesare Abba - Cronache a memoria [Pdf Ita] [TNTvillage]
GIUSEPPE CESARE ABBA
CRONACHE A MEMORIA
Giuseppe Cesare Abba nacque a Cairo Montenotte (provincia di Savona) nel 1838.
Dopo una prima formazione presso gli Scolopi, si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Genova, dove studiò per qualche tempo.
Nel 1860 si arruolò con Garibaldi partecipando alla spedizione dei Mille, esperienza fondamentale nella sua biografia, rievocata in molte delle opere.
Nel 1862 si stabilì a Pisa; qui compose i due poemi In morte di Francesco Nullo (1863) e Arrigo. Da Quarto al Volturno (1866). Come garibaldino partecipò anche alla terza guerra di indipendenza (1866).
Nel 1867 si stabilì a Cairo Montenotte ricoprendo incarichi nell'amministrazione del comune. In questi anni scrisse il romanzo storico Le rive della Bormida nel 1794 (1875) e la prima stesura della sua opera più nota Noterelle d'uno dei Mille edite dopo vent'anni (1880). Redatto in forma di diario, il testo rievoca la vicenda garibaldina in toni celebrativi; la distanza di tempo tra i fatti e la stesura dell'opera contribuisce a dare un tono idealizzato alla storia.
L'opera di Abba fu apprezzata da Carducci, con cui lo scrittore strinse un rapporto d'amicizia; Carducci lo aiutò in seguito ad impiegarsi come professore di lettere nel liceo di Faenza dal 1881 al 1884. In questi anni Abba scrisse i racconti raccolti in Montenotte, Dego e Cosseria (1884) e Cose vedute (1887), oltre alla raccolta di versi Romagna (1887).
Nel 1884 si trasferì a Brescia; nell'ultimo periodo della sua vita si dedicò alla stesura di opere divulgative sulla storia garibaldina (Storia dei Mille narrata ai giovinetti, 1904; Cose garibaldine, 1907) e manuali per la scuola e per l'esercito. Le ultime raccolte di versi hanno il titolo di Dogali (1887) e Vecchi versi (1906).
Morì a Brescia nel 1910.
In quelle parti sopra il Monferrato che si chiamano Langhe, dove il dilagare della rivoluzione francese era stato sentito prima che nelle altre terre subalpine; passati che furono i tempi di Napoleone, la vita a poco a poco tornò a correre quasi quale un mezzo secolo avanti. Con un po' d'arte, lo Stato e la Chiesa vi rimisero tutto nell'antico andare; molta disciplina civile, molte pratiche religiose, indussero di nuovo il sentimento dell'esser vivi ognuno a godere il poco a lui possibile e ad espiare la sua parte del peccato originale: molta rassegnazione, molto dubbio dei così detti beneficii lasciati dalla rivoluzione, alcuni dei quali veramente non si potevano disconoscere, ed erano, tra gli altri, le opere pubbliche, le grandi strade aperte da Napoleone. Queste, sì, erano fatti; ma, insomma, egli stesso, Napoleone, per far quel poco di buono e durevole, aveva dovuto mettersi in capo una corona. E questa non gli era neppur bastata. Non avevano visto tutti? Appena egli se l'era presa col Papa, giù su lui le disgrazie! Era caduto nel nulla col suo impero. Che cosa giovava che in ogni città o borgo ci fosse qualcuno divenuto grande sotto di lui e che in tutti i casati ci fossero degli uomini che avevano girato per lui l'Europa, dalla Spagna alla Russia? Solo guadagno fatto da loro il potersi vantare d'aver servito quell'uomo, di parlare e di bestemmiare un po' il francese, di ricordare qualche frase d'altre lingue dei paesi dove erano stati condotti alla guerra o dove avevano vissuto da prigionieri. Chi aveva portato a casa qualcosa? Uno diceva di aver nascosto un tesoro in un bosco o a piè di una pila di ponte nella tal città dell'Austria, e vecchio cercava ancora invano chi volesse andare con lui a ritrovarlo: un altro aveva viaggiato con lo zaino pieno di zafferano tolto nel saccheggio d'una città spagnuola, ma diceva che poi, scoperto dai superiori, questi glielo avevano levato, e se ne mordeva ancora le mani: molti mostravano delle cicatrici testimonianze d'un gran coraggio, ma stringevano tutti pugni di mosche. Godevano d'essere stati ciò che erano stati, grandi soldati, ecco tutto: ma in cuor loro dovevano dire che se fossero tornati i tempi e la gioventù, non essi sarebbero tornati a quella gloria. Vera gloria era sempre stata e doveva divenire di nuovo il vivere umilmente contenti nel posto che la Provvidenza aveva assegnato a ciascuno, solo migliorandoselo con le proprie forze senza danno del prossimo: interesse e timor di Dio, amare il Principe, venerare il Papa e la gerarchia, ubbidire i genitori, farsi ubbidire dai figli, pensare all'anima e rispettare le autorità sotto le quali si era immediatamente posti. Che cosa si voleva di più bello che una vita tutta d'ordine, in cui il Re si curava del bene terreno dei sudditi e la Chiesa delle cose spirituali dei fedeli? In quanto al rispetto, questo aveva ripreso le sue forme antiche, cominciando dalla famiglia. Nelle case signorili si dava del lei ai nonni e ai genitori che si davano di solito tra loro del voi; del voi si davano i figli tra fratelli e sorelle: in quelle del popolo, il voi correva pure tra marito e moglie, del voi si davano tra di loro i figli; e se questi si davano del tu passavano per maleducata plebe.
Autore: Abba, Giuseppe Cesare
Titolo: Cronache a memoria
Anno: 1910
Lingua: Italiano
Genere: Narrativa
Numero di pagine: 27
Dimensione del file: 283 KB (282.336 byte)
Formato del file: Pdf
NOTE: ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Paolo Alberti
REVISIONE:
Claudio Paganelli
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli - Alberto Barberi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA:
"Cronache a memoria",
di Giuseppe Cesare Abba;
ECIG; Genova, 1992
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